La notte di San Giovanni

«Mi ero seduto su un poggio da dove poter dominare con lo sguardo quanto accadeva. Enorme era l’afflusso e ordinatissimo: incitandosi l’un l’altra festevolmente, alcune di quelle donne, cinte d’erbe odorose e con le maniche rimboccate sul gomito, immergevano le loro candide mani e le braccia nell’acqua, sussurrandosi non so quali dolci parole in una lingua a me ignota.»
Questo è ciò che Petrarca descrive nella sua visita a Colonia nel 1333, la sera della vigilia di San Giovanni. Una tradizione antica, un rito tipico del mondo femminile volto a prevenire le disgrazie e le disavventure per tutto l’anno avvenire.
I riti della notte di San Giovanni, però, non si limitano alla Germania, si ritrovano in moltissime zone d’Europa, ognuna con una storia e delle pratiche differenti, ma tutte accomunate da due elementi fondamentali, l’acqua e le erbe. Una consuetudine che si perde nella notte dei tempi era quella di raccogliere le erbe di San Giovanni e di lasciarle macerare in acqua per tutta la notte. Al mattino seguente, il macerato così ottenuto veniva adoperato per lavarsi il viso, al fine di ricevere bellezza e fortuna.
Tra le molte erbe utilizzate non poteva mancare l’artemisia (Artemisia vulgaris), nota anche come “pianta di San Giovanni” (da non confondersi con l’erba di San Giovanni, l’iperico). Un altro nome che la identificava in epoca medievale era Cingulum Sancti Johannis, “cintura di San Giovanni”, perché si riteneva che il Battista la utilizzasse in tal guisa nella sua permanenza nel deserto. Questa pianta perenne, spontanea in gran parte d’Europa, veniva già descritta da Plinio il Vecchio per alleviare l’affaticamento dei piedi e per le sue caratteristiche emmenagoghe. Nel Medioevo le sue proprietà digestive vennero esaltate nel “Physica” di Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179).

Si ringrazia Arianna Sulpizi e Antonio Severoni per aver contribuito nella realizzazione delle foto e nella stesura del testo.

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